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Venezia 2021: cosa ha funzionato e cosa no.


Dopo nove giorni “difficili ma molto piacevoli” come li ha definiti il Presidente della giuria Bong Joon Ho, è finalmente giunto quello che ormai da anni rappresenta il momento più atipico e al tempo stesso più utile dell’intero Festival: quello di trarre i bilanci. Il momento più atipico, ovviamente, perché a partire da oggi gli organizzatori, i promotori e perfino i membri della giuria che in questi giorni hanno tanto attentamente giudicato le opere in concorso verranno a propria volta giudicati (sia pur con assai meno perizia, s’intende); più utile perché in fondo è solo dalle riflessioni critiche e dalle considerazioni degli appassionati che è possibile intraprendere un cammino di miglioramento e di crescita organizzativa andando a perfezionare perfino quelle manifestazione che già arrecano al nostro Paese più motivi di vanto che di recriminazioni.

Vista la verbosa premessa, non posso dunque che incominciare da cosa non ha funzionato … o perlomeno da cosa poteva funzionare meglio. Sfortunatamente, il principale problema di Venezia e di quasi tutte le principali mostre cinematografiche mondiali è ormai divenuto proprio … il cinema. Non il cinema inteso come forma d’arte, quello sono anni che si dice essere in crisi (…si dice …) bensì proprio il cinema inteso nel senso fisico. Purtroppo mentre alcune tra le star più raffinate e carismatiche del globo si premuravano di promuovere i loro ultimi capolavori i cinema italiani erano semivuoti come ampiamente testimoniato dai pessimi risultati riscontrati al botteghino nell’ultimo periodo. Vi chiederete dove sia l’attinenza fra le due cose, eppure un tempo le principali rassegne cinematografiche portavano in dote una sorta di contagiosa voglia di cinema: una voglia di guardare nuovi film, di amarli, di discuterli, di conoscerli fino in fondo anche quando essi non avevano necessariamente vinto un importante riconoscimento o ricevuto l’elogio di un illustre membro della giuria; tutta questa voglia, a sua volta, si traduceva quasi sempre nel prendere la propria vettura e andare al cinema con tutta la famiglia. Oggi invece questa voglia si traduce soltanto nell’attendere con un po’ più di impazienza del solito che la propria piattaforma di riferimento acquisti i diritti di questo o di quell’altro film così da poterlo guardare comodamente nella propria smart tv. L’anno scorso ci eravamo tutti illusi che una volta terminata la pandemia il comune desiderio di aggregazione avrebbe nuovamente riempito le sale di tutta Italia, eppure queste ultime settimane ci hanno costretti a prendere amaramente atto di quanto tale speranza fosse non soltanto vana ma forse perfino ingenua nel suo ostinarsi a non notare un cambiamento di abitudini da parte della gente che ormai appare per certi versi irreversibile.

L’altro aspetto che ho trovato particolarmente deludente delle giornate veneziane, sebbene riconosca che di questo non si può imputare la colpa a nessun uomo o donna presente sul posto, è legato alle condizioni metereologiche. Sì lo so, abbiamo vissuto delle splendide giornate incorniciate da un sole meraviglioso e da un tipico clima estivo ma il problema è proprio questo: un tempo il Festival segnava l’inizio dell’Autunno, era l’occasione per vedere giorno dopo giorno i turisti e gli appassionati iniziare a vestirsi di quelle giacche autunnali che nei mesi precedenti erano rimaste chiuse in un guardaroba. Non ho intenzione di rifilarvi una filippica sul riscaldamento globale o su argomenti di questo tipo, ovviamente, eppure … dove sono finite quelle adorabili pioggerelline grazie alle quali un tempo sui tappetti rossi c’erano più ombrelli che star del cinema? Che fine hanno fatto quei venti tiepidi che i fan più stoici dovevano sopportare per ore se volevano rimanere ad osservare i propri beniamini fino alla fine del loro andirivieni? Che fine hanno fatto quei temporali in lontananza che ci facevano aver paura del fatto che da un momento all’altro potesse andar via la corrente e che la prima di questo o quel film venisse rimandata, anche se poi non succedeva quasi mai? Nulla, sembrerebbe. Per alcuni questo potrà essere un bene, da un punto di vista pratico lo è di certo, tuttavia … e se alcuni di noi fossero nostalgici di quelle atmosfere?

Ad ogni modo volendo provare per un attimo a non lasciarci soverchiare da questa montagna di malinconia potremmo provare finalmente a voltare pagina e ad analizzare invece quanto ha funzionato alla perfezione. In effetti nell’enunciare i pregi della 78° edizione della mostra potrei sbizzarrirmi come non mai: potrei parlare delle eccellenti misure di prevenzione sanitaria (appena due contagi riscontrati durante tutta la durata del Festival) potrei parlare dei tanti giovani talenti che si sono messi in mostra e di cui certamente sentiremo parlare ancora nei prossimi anni; potrei accennare al fatto che mai come quest’anno le polemiche sterili sono state limitate al minimo e quasi sempre sono terminate nel giro di poco e senza scadere nel volgare o nel disdicevole; eppure credo che esista qualcosa su cui vale la pena concentrare le proprie attenzioni ben più che su tutto il resto: qualcosa in grado di eclissare perfino i pur notevoli pregi organizzativi di coloro che hanno contribuito a mettere in moto questa straordinaria macchina logistica; quel qualcosa è il valore dei film. Talvolta distratti come siamo dagli aspetti mondani annessi al Festival, tendiamo a dimenticarci che è sulla qualità delle sue opere che essa si basa è che è la qualità delle sue opere ad aver reso questo evento tanto speciale. Ebbene, ad oggi e con la piena consapevolezza di non rappresentare un punto di vista univoco posso dire di essere rimasta piacevolmente colpita dal valore delle diverse pellicole in concorso; raramente mi è capitato d’imbattermi in un film che potrei davvero definire deludente e molto spesso, viceversa, mi è capitato di ravvisare nelle pellicole in questione delle opere di straordinaria sensibilità ed eleganza. In particolare ci terrei a esprimere la mia contentezza per il fatto che la vittoria del Leone d’oro sia spettata a “12 ore” un lungometraggio che si è distinto non solo per il suo intrinseco valore artistico quanto per il coraggio e la lungimiranza di una regista capace di mettere al centro del proprio lavoro temi di natura etica e morale. In fondo forse io stessa ho avuto torto quando all’inizio ho scritto che il modo migliore per promuovere nuove ed utili riflessioni è quello di avvalersi della propria coscienza critica; forse c’è un altro strumento almeno altrettanto potente e certamente più efficace per raggiungere tale scopo, uno strumento chiamato arte. Ed oggi, almeno credo, dovremmo tutti ringraziare Venezia per avercelo ricordato.

Antonella Romagnoli

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