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Perché le nuove tecnologie NON stanno uccidendo la fotografia.


Credete che una casa editrice preferirebbe stampare i propri libri tramite una copisteria o con dei blocchi di legno? Credete che un paio di amici troverebbero più agevole comunicare tra loro scambiandosi messaggi con i propri smartphone o utilizzando piccioni viaggiatori? E voi, preferireste lavare la vostra biancheria con l’acqua dei pozzi o in lavatrice? Ovviamente suppongo che la risposta a ognuna di queste domande sia quantomai scontata: credo che nessuno, potendo, si priverebbe mai di nessuna delle più moderne tecnologie per tornare alle sorpassate e assai disfunzionali tecniche utilizzate dai nostri antenati. La verità è che il progresso degli strumenti e delle attrezzature adottate sul posto di lavoro o nella vita in generale rende tutto incredibilmente più semplice, ma allora per quale motivo quando si parla di fotografia il dibattito si anima improvvisamente di un ben nutrito manipolo di nostalgici disposti a sostenere che le nuove macchine fotografiche e le nuove modalità di post produzione abbiano compromesso se non perfino reso inutile quella che un tempo, a loro dire, era una forma d’arte autentica e spontanea? Lasciando perdere il fatto che chiunque abbia messo piede anche una sola volta in vita sua in una camera oscura sa perfettamente che far “nascere” una fotografia non è mai stato quel processo magico e naturale che qualcuno vuole far credere: al contrario, fin dall’inizio dei tempi generare una foto degna di questo nome è sempre stato il frutto di un lavoro meticoloso, accurato e fatto in gran parte di pazienza e razionalità: lo era quando ad andare per la maggiore erano le macchine a pellicola e lo è adesso con le macchine digitali.

Ma il punto è che perfino in un mondo come quello dell’arte in cui tutto sembra evolversi alla velocità della luce esiste qualcosa che non potrà mai cambiare: la fotografia è essenzialmente comunicazione; comunicazione priva di parole, certo, comunicazione di concetti o idee profondamente diverse tra loro e quasi sempre interpretabili in modi differenti, eppure è pur sempre una modalità espressiva ed in quanto tale ha un intrinseco ed imprescindibile bisogno di trovare un pubblico al quale comunicare il proprio messaggio. Ragionando per assurdo un’ipotetica foto che non possa essere vista da nessuno, per quanto originale o interessante, finirebbe inevitabilmente col mancare il proprio scopo originale: quello di trasmettere un messaggio e di esprimere un concetto. È dunque inutile sottolineare quanto il lavoro del fotografo sia influenzato dalle aspettative del pubblico a cui egli si rivolge … comunicare una verità a chi ha voglia di ascoltarla sarà un processo relativamente semplice e naturale, comunicarla a coloro che al contrario desiderano solamente essere illusi risulterà pressoché impossibile; ne consegue che in un mondo in cui la maggior parte del pubblico è costituito da persone superficiali che intravedono nell’arte una forma di svago e di evasione piuttosto che un’opportunità di arricchimento culturale sarà un mondo in cui i fotografi più intraprendenti e più sensibili ai temi connessi alle ingiustizie sociali finiranno col passare inosservati o addirittura con l’essere derisi.

In questo quadro dobbiamo dunque prendere atto senza demonizzare alcuno strumento comunicativo e senza alcun luddismo contemporaneo di sorta, che i nuovi social network hanno indubbiamente contribuito a un profondo condizionamento dei gusti del pubblico generando nella maggior parte dei propri utenti l’esigenza di ravvisare in una foto non più un’opera d’arte quanto un semplice scatto-ricordo. Chi di noi oggi aprendo il proprio account d’Instagram potrebbe negare che almeno il 90% dei contenuti condivisi su di esso siano immagini relative alla propria vita personale, alla propria quotidianità o semplicemente al desiderio di mettere in mostra un dato oggetto in un determinato momento? Intendiamoci in tutto ciò non vi è e non potrà mai esserci nulla di male: ognuno di noi, me compresa, ha spesso sentito in passato esigenze di questo tipo arrivando in più di un’occasione a coronarle con il proverbiale scatto fotografico, eppure in foto del genere manca tutto ciò che costituisce la base di una fotografia intesa come strumento di bellezza e di comunicazione: manca il desiderio sperimentale, manca l’esigenza di perfezionamento tecnico, manca … l’arte.

Dovremmo dunque prendere atto una volta per tutte che il problema della fotografia nel XXI secolo non è dato dal modo in cui esse vengono prodotte ma dagli strumenti comunicativi tramite cui vengono diffuse; dovremmo prendere atto del fatto che la tecnologia non rende più o meno valide le foto ma può avere, come abbiamo visto, il potere di alterare indirettamente lo scopo di esse; dovremmo prendere atto, infine, che non esistono epoche migliori di altre ma solo masse di spettatori più o meno sensibili e più o meno innamorate dell’arte rispetto ad altre ed è da questo che dipende il futuro della fotografia. Una volta accettato tutto ciò senza inutili rimpianti verso le epoche passate e senza ingenue mitizzazioni degli anni trascorsi, sono certa che il dibattito sulla fotografia diventerà nel giro di poco assai più credibile, più costruttivo e forse perfino più concreto.

Rachele Bobbi.

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