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Dieci libri terribili di dieci grandi scrittori.


Com’è risaputo anche i migliori possono sbagliare, eppure quando sbagliano i loro errori risultano inevitabilmente ancor più eclatanti: oggi proviamo ad elencare insieme i peggiori libri mai scritti da quelli che sono forse i più grandi scrittori viventi, con il desiderio di riflettere su come perfino un autore estremamente dotato possa incorrere nelle insidie della banalità e dell’inconsistenza, ma anche con la piena consapevolezza che ciascuno di noi ha il diritto di non veder pregiudicata la propria carriera solamente a causa di un singolo passo falso e che nessun incidente di percorso, per quanto sorprendente, potrà mai oscurare il talento o il genio di un artista. Chissà, forse perfino le opere sotto elencate sono in realtà una testimonianza del talento e del genio in questione, forse le loro pagine sono intrise di intuizioni brillanti e forse l’unico motivo per cui non riusciamo ad apprezzarle a dovere è proprio quello che non condividiamo la stessa brillantezza di coloro che le hanno concepite: probabilmente un giorno tra dieci, venti o magari cinquant’anni dovremo tutti ricrederci sul loro valore, eppure dal momento che quel giorno ancora non è giunto …



· Il silenzio (Don DeLillo) – Rischia di essere l’ultimo racconto dell’ormai leggendario scrittore newyorkese, eppure non appare quello struggente e indimenticabile canto del cigno che tutti ci saremmo attesi, e non tanto per l’ormai inflazionato sentimento di prescienza dell’annichilimento, un impulso che DeLillo ha saputo raccontare prima e meglio di chiunque altro a partire dai tempi di Rumore Bianco ma che ormai appare decisamente abusato e fine a sé stesso, non per il tentativo (solo in parte riuscito) di trasformare i dialoghi dei personaggi in dei monologhi a metà tra il teatro dell’assurdo e il cinema surrealista, un’idea che sarebbe perfino risultata interessante se non fosse che questo libro non è né un copione teatrale né una sceneggiatura cinematografica, e neppure per l’oggettiva incapacità di trovare una reale attinenza tra le componenti principali di questo romanzo: Einstein, il Super Bowl, i viaggi aerei, i blackout … tutto appare individualmente interessante e collettivamente privo di senso, come un insieme di ottimi ingredienti che non riescono ad amalgamarsi tra loro. Eppure, il difetto principale del libro non si nasconde nel modo in cui esso è stato ideato quanto nel modo in cui è stato sviluppato. “Il silenzio” è un romanzo breve … troppo breve, e non perché un’opera di un centinaio di pagine non possa essere a sua volta un capolavoro (di esempi simili, nella storia della letteratura, se ne trovano in abbondanza), quanto perché dopo aver sfogliato l’ultima di queste pagine si ha l’impressione che qualunque argomento DeLillo volesse affrontare si è trasformato in un semplice accenno ad essi, capace sì di stuzzicare la curiosità del lettore ma non certo di stimolare in lui la suggestione necessaria ad apprezzare realmente il testo, un’assenza di stimoli che si traduce inevitabilmente nel mancato raggiungimento dello scopo principale dell’opera: quello di intrufolarsi nel nostro subconscio fino a farci comprendere quanto la realtà contemporanea potrebbe rivelarsi tetra e claustrofobica nel momento stesso in cui venissimo privati di ciò che attualmente diamo per scontato. Per sua stessa ammissione DeLillo non possiede più il vigore e l’energia necessari per scrivere con la stessa rapidità del passato ed in fondo è assai difficile incolparlo per il fatto che, come qualunque altro essere umano, egli non è rimasto immune al trascorrere del tempo, eppure paradossalmente proprio la sua nostalgia rappresenta forse l’aspetto più interessante del libro, questa volta non a causa delle sue parole ma del modo in cui sono state stampate: il font impiegato ricorda in maniera assai esplicita (troppo esplicita per essere considerata casuale) il carattere della vecchia Olympia SM9 con la quale DeLillo ha battuto personalmente la maggior parte dei suoi libri; una scelta provocatorio e al tempo stesso lungimirante considerando che “Il silenzio”, fondamentalmente, parla proprio di quanto nefaste siano state le conseguenze della digitalizzazione ... inclusa quella riguardante l’editoria.



· Vento e flipper (Haruki Murakami) – In realtà non sarebbe neppure un vero libro quanto piuttosto l’unione dei due primi, brevissimi romanzi di Murakami, pubblicati separatamente in Giappone negli anni 70 e arrivati in Europa solamente trentott’anni dopo (ad eccezione, ovviamente, delle immancabili traduzioni clandestine.) I due romanzi condividono non solo la stessa voce narrante ma anche gli stessi protagonisti: “il sorcio”, un ragazzo ricco ma apatico, e uno studente di cui non viene mai rivelato il nome; i due trascorrono la maggior parte del tempo fumando, bevendo e ascoltando musica jazz. E poi? E poi nulla, o quasi. Le due opere non hanno pressoché alcuna trama e perfino nei momenti in cui essa sembra esistere non risulta mai avvincente; i dialoghi tra i giovani rasentano il nichilismo e in ogni caso i due appaiono quanto di più distante possa esistere dall’archetipo dell’universitario che negli anni 70 ambiva a cambiare il mondo tramite le armi del pensiero e della rivoluzione; quest’ultimo non sarebbe neppure un problema se non fosse che tale mancanza di entusiasmo non viene sostituita da alcun tipo di azione o di iniziativa, al punto da spingerci a chiederci se siamo in presenza di un romanzo o del mero elenco dei vizi coltivati da due giovani ragazzi per ingannare la noia della quotidianità. Pochi anni dopo sarebbe stato pubblicato il terzo ed ultimo libro della trilogia, il più famoso e decisamente meglio riuscito “Nel segno della pecora”, lì emergerà per la prima volta la necessità del Murakami scrittore di distaccarsi dalla dimensione del tangibile per esplorare i suoi personaggi in un modo che possa realmente essere definito introspettivo, attribuendo perfino alla banalità di alcuni di essi un significato perturbante, inusuale e parossistico: un’ambizione che probabilmente aveva già palesato in “Vento e flipper”, ma purtroppo con risultati assai più modesti.



· Lesioni personali (Margaret Atwood) – Pubblicato per la prima volta in Canada nell’81, come nel caso della precedente opera anche Lesioni personali non venne tradotto in Italia se non quasi quarant’anni dopo. La storia ha come protagonista Rennie Wilford, una giornalista di moda che a seguito di un tumultuoso periodo personale abbandona il Canada per trasferirsi temporaneamente ai Caraibi dove scoprirà suo malgrado la corruzione e le angherie del governo locale. Il romanzo esplora molteplici temi, dal femminismo alla sessualità fino ovviamente alla politica, eppure la satira e le continue metafore con cui la Atwood tenta di ridicolizzare il patriarcato e il perbenismo tipici della società nordamericana si scontrano con un impianto narrativo privo della complessità necessaria per affrontare dei temi così universali e con uno stile meno pungente ed efficace di quanto ci si potesse aspettare dopo aver letto le prime pagine, forse le uniche realmente all’altezza degli (elevati) standard della scrittrice canadese. Il personaggio di Rennie inoltre, non offre mai l’impressione che le proprie metamorfosi interiori siano realmente in sincronia con la società o con gli uomini che la circondano, né che il proprio tormento sia realisticamente proporzionato alle vessazioni che ella si ritrova a subire, rimandando così al lettore un senso di caducità e d’insoddisfazione che neppure l’epilogo del romanzo riusciranno a placare.



· I quaderni di Don Rigoberto (Mario Vargas Llosa) – Il romanzo erotico più frammentario e inconcludente degli anni 90, verte su un raffinato e benestante dipendente d’una compagnia assicurativa peruviana, Don Rigoberto per l’appunto, nonché sul suo rapporto morboso e tormentato con la seconda moglie, Lucrecia. L’uomo sembra nutrire una curiosa tendenza ad evadere dalla realtà elaborando contorte fantasie sessuali che affiderà a propria volta ai suoi taccuini; mentre una simile ossessione viene coltivata anche da suo figlio Fonchito, il quale tenta di dar alla luce dei disegni ispirati ai nudi del pittore austriaco Egon Schiele, cercando attraverso tali opere di esplorare il proprio ambiguo amore per la matrigna. Più in generale sono in molti i pittori e gli incisori citati da Vargas Llosa in questo libro al punto che si potrebbe perfino supporre che esso, più che un romanzo, sia un atto di lode verso gli artisti da lui maggiormente ammirati; il susseguirsi delle varie vicende appare fin da subito debole, incapace di maturare uno sviluppo corale o di arrivare ad una conclusione realmente coerente quasi come se l’autore, in cuor suo, avesse pensato che la propria passione per la pittura potesse sopperire all’assenza di idee letterarie, salvo scoprire dopo aver iniziato la scrittura del romanzo di non essere neppure egli stesso in grado di portarlo avanti. Lo stile, pur non all’altezza delle altre opere, è comunque piuttosto semplice ed accattivante, eppure questo non è sufficiente a riscattare il libro dalla sua piattezza né a risparmiare al lettore quel senso di tedio e di monotonia che lo tormenterà sino al lieto incontro con la parola “fine”, il che, ci conferma una volta di più che in ogni libro il cosa è sempre più importante del come. Unico aspetto positivo de “I quaderni di Don Rigoberto” sembra essere il fatto che esso segnò l’inizio della prolifica e longeva collaborazione tra lo scrittore sudamericano e la casa editrice Alfagura, benché anche questo assomiglia più ad un merito dello scrittore che del libro.



· Il paese dell’alcol (Mo Yan) – formalmente questo romanzo di quasi quattrocento pagine dovrebbe appartenere al filone del “realismo allucinato”, un sottogenere letterario di cui Mo Yan è maestro indiscusso e grazie al quale nel 2012 ha vinto il premio Nobel; in questo caso però l’impressione è che l’autore abbia travalicato – non sappiamo quanto consapevolmente- i limiti del sottogenere in questione, trasformando quella che originariamente doveva essere una modalità comunicativa funzionale a veicolare dei messaggi sociali e culturali ben definiti, in un esperimento confusionario e alquanto sterile. La storia parla di un onesto ispettore di polizia, Ding Gou'er, al quale viene affidato il compito di indagare su alcuni sospetti casi di cannibalismo: un tema, quello dell’antropofagia, certamente non nuovo nell’ambito della letteratura cinese, se tuttavia per autori come Lu Xun esso ha rappresentato una spietata allegoria dell’istinto umano contrapposto all’intransigenza morale confuciana, in questo caso il tema del cannibalismo appare quasi buttato lì per caso al punto da venir presto trascurato per lasciar spazio ad altri tipi di perversioni gastronomiche, capaci a loro volta di disgustare il lettore ma non certamente d’indurlo a riflettere. In questo senso appare doverosamente opportuno sottolineare come le differenti abitudini culinarie tra i paesi asiatici e quelli occidentali rendano probabilmente più arduo per il pubblico europeo comprendere determinate allusioni o anche solo di non rimanerne nauseati, eppure da uno scrittore del calibro di Mo Yan sarebbe stato certamente lecito attendersi la capacità di superare tali barriere culturali e di dar vita ad una prosa realmente universale, come spesso (quasi sempre) gli è accaduto nell’arco della sua carriera. Piuttosto maldestro anche il tentativo di diventare egli stesso protagonista attivo degli ultimi capitoli, trasformando Il paese dell’alcol in una sorta di romanzo postmoderno d’ispirazione calviniana: non è ben chiaro se tale intromissione sia finalizzata a spiegare al lettore le precedenti pagine, effettivamente tutt’altro che lineari, o ad includere se stesso in quel processo di disapprovazione collettiva alla base dell’opera, trasformando così quest’ultima in un’enunciazione autocritica delle proprie stesse contraddizioni; non è ben chiaro, neppure, quale dei due intenti sia più lontano dal poter essere considerato indispensabile.



· Lanzarote (Michelle Houellebecq) – Un breve romanzo autobiografico che apparirebbe ancor più breve se oltre metà delle pagine non fossero occupate da fotografie a colori scattate presumibilmente dallo stesso Houellebecq. Il testo racconta di un viaggio (rigorosamente non organizzato) compiuto dall’autore lungo le Canarie nordorientali, in compagnia di una disinibita coppia omosessuale tedesca e di un uomo depresso al centro di una grande metamorfosi mistica, Rudi. Gli argomenti principali risultano essere il sesso, il sesso e … direi anche il sesso; tolto l’erotismo, questo romanzo è vuoto proprio come sembrano vuote le aride distese dell’isola spagnola. Si potrebbe supporre, con un notevole atto di stima verso l’autore, che la scelta di basare un intero libro sul racconto dei propri amplessi nasconda il tentativo da parte di MH di ricercare uno strumento di riscatto e di gioia primordiale perfino all’interno d’una realtà inconsistente come quella in cui vive; si potrebbe auspicare, ancora, che le innumerevoli avventure erotiche siano propedeutiche a raccontare il senso di solitudine di chi ne è escluso, come Rudi, nonché la ricerca di fonti alternative di speranza e di affrancamento da parte di questi introversi protagonisti; si potrebbe, certo, eppure appare ben più realistico considerarle per ciò che esse effettivamente appaiono: degli sterili tentativi di destare scandalo e di far sembrare il protagonista un uomo cinico e sferzante, tentativi destinati a rivelarsi inconcludenti non appena il lettore si accorge quanto il tema dell’erotismo sia ormai inflazionato nella letteratura houellebecquiana. Un’ultima annotazione non può che essere dedicate alle istantanee presenti nel libro, il cui stile rozzo e minimalista dovrebbe forse rivelarsi funzionale a raccontare le sembianze dell’isola con un oggettivismo incapace di lasciar spazio ad alcuna forma di caratterizzazione personale, ma che al contrario appaiono semplicemente delle foto prive di ricercatezza, di fascino e, in definitiva, di utilità.



· In una notte buia uscii dalla mia casa silenziosa (Peter Handke) – Un farmacista parte in un atipico viaggio tra boschi, città e luoghi incontaminati alla ricerca di sua figlia, il tutto in compagnia di un poeta dalle modalità espressive decisamente inconsuete e di un ex campione olimpico incapace di battersi in una rissa, questo è in estrema sintesi “in una notte buia uscii dalla mia casa silenziosa” … forse, o forse no. In realtà la scrittura è talmente ermetica e permeata di onirismo da lasciare costantemente il dubbio al lettore di aver compreso o meno ciò che il narratore sta tentando di raccontare. In cosa è consistito il fatidico evento che ha portato il protagonista ad avventurarsi in questa ricerca? Esso era reale? Immaginario? Era davvero così significativo, o si è trattato solo un episodio banale che per qualche ragione ha avuto un effetto devastante sull’inconscio del farmacista? E ancora, la figlia in questione è davvero mai esistita? E nel caso, perché il padre non l’avrebbe mai conosciuta? Difficile, per non dire impossibile trovare una risposta univoca ad una qualunque di queste domande: certo, si potrebbe obiettare che l’enigmaticità sia uno dei tratti essenziali non solo di Handke, ma perfino di alcune delle più autorevoli voci letterarie degli ultimi decenni, eppure tutto ciò non dovrebbe mai tradursi in un senso di eccessiva vaghezza o il lettore più che incoraggiato a proseguire col racconto si sentirà piuttosto tentato di chiudere il libro anzitempo e quant’anche non dovesse mettere in pratica tale intento, rimarrà assai deluso nello sfogliare l’ultima pagina e di scoprire che neppure l’epilogo è stato in grado di dissipare quel senso di nebulosità che aveva fino a quel momento contraddistinto l’opera. Malgrado le svariate passioni, i tormenti e i rimorsi che animano i protagonisti e ai quali nel corso del libro si accenna indirettamente, neppure uno di questi sentimenti viene realmente approfondito, come se la sfera dell’emotività lasciasse brutalmente il passo ad uno sterile desiderio d’agire senza alcun motivo e le azioni a loro volta, proprio a causa dell’assenza di motivazioni tangibili, lasciassero spazio ad una storia pleonastica, una storia che purtroppo non può basarsi solamente sulla pur genuina passione del protagonista per la micologia o su un paio di inattese digressioni temporali, poiché sprovvista della sua stessa anima: come una ciliegina alla quale non viene accompagnata la torta.



· Terre al crepuscolo (J.M. Coetzee) – La raccolta di due novelle accomunate dalla visione critica della società imperialista e del colonialismo più predatorio, ma separate dalla natura dei protagonisti, delle ambientazioni e dei periodi storici in cui esse si svolgono. Il primo racconto, progetto Vietnam, verte principalmente sulla figura di Eugene Dawn, uno studioso destinato al delirio e alla paranoia a causa della consapevolezza delle barbarie perpetrate dalle forze armate statunitensi durante la guerra in Vietnam. Il secondo, “Il racconto di Jacobus Coetzee”, narra invece la spedizione di un cacciatore nell’entroterra sudafricano attraverso territori inesplorati all’interno dei quali s’imbatterà nei Namaqua, una locale popolazione di pastori con la quale instaurerà un rapporto dapprima di vicendevole collaborazione ed in seguito di ostilità. Malgrado quest’opera sia ascrivibile agli albori della carriera di Coetzee (fu il primo manoscritto che decise di pubblicare), si direbbe che egli avesse già maturato una certa tendenza a ricreare situazioni conflittuali ed estreme affinché esse facessero da sfondo a quegli stessi argomenti che gli sarebbero stati tanto cari nell’arco della sua intera esistenza: il razzismo, la diffidenza tra popoli antropologicamente diversi tra loro e la spregiudicatezza con cui l’uomo bianco antepone i propri interessi alla moralità; a differenza di quanto sarebbe accaduto in seguito però, lo scrittore di Città del Capo non riesce mai realmente a stabilire una relazione, per quanto sottile, tra l’alienazione dei suoi protagonisti e il senso di colpa delle comunità che essi rappresentano; come se il primo sentimento, personale, fosse indissolubilmente scisso dal secondo, collettivo. Inoltre mentre nei suoi romanzi migliori Coetzee ha saputo distinguersi per una prosa capace di mantenere una qual certa sobrietà perfino nel descrivere le scene più sanguinose, in “Terre al crepuscolo” ciascun atto di violenza viene descritto in modo minuzioso ed esplicito, dando vita ad una ruvidità a tratti fin troppo manifesta; la grandezza dell’autore sudafricano non alberga solo in ciò che negli anni ha saputo scrivere, ma anche in ciò che ha saputo tacere ed in ciò che ci ha solamente lasciato immaginare, ma purtroppo in tale romanzo questa grandezza non riesce mai a palesarsi in modo definitivo offrendoci una rappresentazione della realtà sprovvista di acume e di sottigliezza che proprio per questa ragione, paradossalmente, appare non solo meno interessante ma perfino meno realistica. Anche lo stile poi, sembra costantemente a metà tra un acerbo romanzo d’avventura ed un ampolloso saggio accademico, probabilmente a causa del fatto che gran parte dell’opera si basa su dei finti resoconti storici, offrendo così un senso generale di confusione e al tempo stesso di algidità e spingendoci a domandarci se non fosse il caso, dopo aver terminato la prima stesura, di provarne a redigere una seconda maggiormente focalizzata sull’effettivo tema dell’opera.



· Il sorriso del giaguaro: viaggio in Nicaragua (Salman Rushdie) – Scritto subito dopo la pubblicazione de “I versi satanici”, questo saggio racconta il viaggio dello scrittore in Nicaragua, dove egli indagherà sulle dinamiche che hanno condotto alla rivoluzione sandinista (avvenuta sette anni prima), raccontandone gli effetti sulla popolazione locale e rivelando la contraddittorietà dei rapporti tra i Contras e l’America reaganiana. Purtroppo però, l’autore sembra aver confuso il legittimo desiderio di scrivere un reportage senza lasciarsi soverchiare da alcun pregiudizio o condizionamento ideologico con la totale assenza di una qualsivoglia pianificazione letteraria, il risultato è un’opera improvvisata, scritta quasi con noncuranza e totalmente incapace di rivelare a un lettore mediamente istruito qualunque informazione di cui egli non sia già a conoscenza. In alcuni momenti l’eccessiva sinteticità di Rushdie può essere spiegata con un’insufficiente preparazione, in altri, forse, con una sorta di caritatevole istinto che lo porta a non rivelare gli aspetti più brutali della rivoluzione, ma in ogni caso il libro risulta frammentato e incompleto, incapace di offrirci un punto di vista critico sui fatti avvenuti poiché chi l’ha scritto, a sua volta, non ha avuto il tempo di maturarne uno. La prosa è scorrevole, una peculiarità che emerge soprattutto quando vengono rivelati gli aneddoti relativi alla vita dei singoli cittadini o di tutti quei poeti (nessuno dei quali particolarmente celebre, a dir il vero) che in modo alquanto sorprendente hanno rappresentato uno dei cardini del sandinismo fin dalle sue origini; eppure questa conclamata abilità narrativa ci spinge a rammaricarci ulteriormente nel momento di prendere atto che sarebbe bastato assai poco per trasformare un’opera mediocre in un gioiellino: sarebbe stato sufficiente, da parte dell’autore, trasformare il racconto dell’inedito viaggio in un romanzo anziché in un saggio, magari aggiungendo alle sue esperienze personali un pizzico di fantasia in più e sottraendovi un po’ di quelle acerbe velleità giornalistiche che tanto lo hanno danneggiato.



· Fra le lenzuola (Ian McEwan) – Pornografia, Riflessione di un primate in cattività, Due frammenti, Morta venendo, Fra le lenzuola, Su e giù, Psicopoli, ecco i titoli dei sette racconti brevi che compongono questa raccolta delle opere del primissimo McEwan, una raccolta che fin dalle sue pagine iniziali sembra somigliare più ad un esercizio stilistico che ad un effettivo strumento funzionale ad esprimere un’urgenza comunicativa. La banalità degli argomenti trattati (sesso, arte e vita di tutti i giorni, fondamentalmente) sarebbe perdonabile solamente se a farvi da contraltare vi fossero delle storie avvincenti, piene di colpi di scena e di personaggi memorabili; eppure non solo McEwan manca tristemente ciascuno di questi obiettivi ma non sembra neppure tentare di raggiungerli preso com’è dalla ricerca ossessiva del sensazionalismo e d’una prosa avanguardistica. Probabilmente, se all’epoca in cui iniziò a lavorare a questa raccolta avesse avuto l’esperienza di oggi, si sarebbe egli stesso reso conto che perfino i più audaci artifici letterari e le più fantasiose circonlocuzioni possono forse salvare dalla mediocrità un romanzo ma non un racconto, dal momento che quest’ultimo genere proprio a causa della sua intrinseca brevità ha l’obbligo di trovare fin dal primo paragrafo una chiave interpretativa coerente e originale degli argomenti affrontati, se non vuole trasformarsi in una sterile acrobazia intellettuale, e questa, inutile dirlo, è esattamente l’insidia alla quale “Fra le lenzuola” non riesce a sottrarsi. I racconti iniziali tentano di essere divertenti e scabrosi al tempo stesso, ci riescono, ma solo al prezzo di scadere nell’inverosimile privando le storie della propria credibilità; altri racconti invece, specialmente “Su e giù”, tentano di proporre un lessico decisamente forbito se non addirittura di stampo dandistico, col risultato però di rinunciare alla possibilità di farsi comprendere con facilità dal lettore e richiedendo a quest’ultimo uno sforzo non proporzionale al piacere tratto dalla storia; un altro racconto invece, “Morta venendo”, prova per l’ennesima volta a riproporre il tema dell’amore di un uomo nei confronti di un oggetto inanimato riuscendo così finalmente a generare una storia intrigante ma finendo immancabilmente vittima del tanto impietoso quanto imprescindibile paragone con il più celebre “L’uomo della sabbia” di E.T.A. Hoffmann. Ed in fondo l’intero libro prosegue esattamente così, senza consistere in altro che in una perpetua e dolorosa manifestazione di punti di forza immediatamente sovrastati dalle ben più preponderanti mancanze, fino al punto che perfino quanto di notevole è contenuto in queste pagine smette ben presto di esercitare il proprio fascino o la propria potenza narrativa per cadere in quel severissimo oblio riservato a tutti gli scritti disorganici, perfino a quelli che sarebbero stati forieri di una straordinaria ascesa artistica.

Gianmatteo Ercolino.

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